La casa di Jack: recensione

 La casa di Jack: recensione


Nazione
Danimarca

Anno
2018

Regia
Lars Von Trier

Sceneggiatura
Lars von Trier

Produzione
Zentropa

Cast
Matt Dillon,Bruno Ganz,Uma Thurman,Siobhan Fallon Hogan, Sofie Gråbøl,Riley Keough

GIUDIZIO
5/5

Jack è un serial killer astuto che attraverso 5 episodi definiti “incidenti” narra a un interlocutore di nome Verge cosa significa per lui uccidere. Nonostante l’inevitabile intervento della polizia che non risulta certo infallibile, Jack continua così la sua attività preferita che mette sullo stesso piano della creazione artistica.

La prima cosa che mi è venuta in mente alla fine della visione de La casa di Jack (The House that Jack Built è il titolo originale)   è stato che Lars Von Trier si è divertito un casino, me lo sono immaginato a sghignazzare come Muttley, il cane protagonista insieme a Dick Dastardly delle Wacky Races, conscio di averne combinata un’altra delle sue. Del resto, ancora una volta, attraverso la provocazione, il regista danese prende a sberleffi lo star system cinematografico (Cannes docet) dirigendo un film che potrei definire politicamente scorrettissimo, irriverente e persino comico. L’argomento è di certo il meno adatto all’ironia, ma il modo in cui Von Trier ci parla della natura contorta di killer Jack è certamente originale, e destabilizzate, distante da qualunque altro film sia stato dedicato all’argomento degli assassini seriali. E’ chiaro che siamo dentro un film di un regista che ha sperimentato molto nella sua carriera, osando fino alle estreme conseguenze. La casa di Jack, in quanto a iconoclastia, non ha nulla da invidiare al precedente, Nynphomaniac. Anche in questo caso il protagonista (un chiaro alter ego del regista stesso) ama disquisire in modo direi accademico della passione che lo contraddistingue, ovvero la dipendenza dalla violenza e dall’omicidio, pratiche giudicate da lui alla stregua di performance artistiche. Lo fa come se fosse seduto sulla poltrona del suo analista, e in effetti un interlocutore c’è e si chiama Verge (Virgilio), una figura che si collega, genialmente, a quella dantesca (e questo aggettivo vedremo che non è casuale) e che accompagna Jack nel suo personale inferno, cercando più volte di screditare le sue teorie pro violenza. E di violenza Jack ne fa il suo pane quotidiano: uccidere per lui è stare sotto la luce buona (come viene sottolineato in una particolare sequenza animata), un luogo dove si sente se stesso, appagato. Quando passa troppo tempo senza farlo comincia a sentirsi in debito di ossigeno, in crisi di astinenza. E’ un pò come un artista che è in astinenza creativa, perché Jack “crea” con i suoi cadaveri dei personali feticci artistici. E’ amante della fotografia, in particolare dell’effetto al negativo degli scatti (dove per altro il bianco diventa nero…) per questo egli utilizza i cadaveri come soggetti da mettere nelle pose più strane e, a suo giudizio, creative. E’ per sua stessa ammissione un architetto, e se nel film egli ha intenzione di costruire una casa perfetta in cui vivere, in realtà ciò che intende “architettare” è l’apologia dell’omicidio. La casa rimarrà un’utopia fino alla fine quando, attraverso Verge, capirà di quale tipo di edificio egli ha bisogno. Ma torniamo all’ironia. Questa è presente in quasi tutte le sequenze del film, che è diviso in cinque parti che corrispondono a cinque “incidenti” dove Jack tenta di giustificare a Verge la sua natura di serial killer. Già il primo incidente non può che farci sorridere quando la vittima, interpretata da Uma Thurman praticamente  costringe, inconsapevolmente, Jack ad agire, provocandolo più volte. La sequenza è la prima di una mix straniante dove l’umorismo nero e sferzante si intreccia all’inevitabile scoppio di violenza. E qui Lars Von Trier ci va giù pesante: che sia un colpo di crick in pieno viso o l’amputazione dei seni di una ragazza o l’omicidio di due bambini e via dicendo. Jack sembra gigioneggiare, divertendosi in barba alla polizia, che risulta incapace persino di riconoscere la sua identità di serial killer, persino quando si trova le prove sotto il naso. Jack non ha pentimenti, ama il suo insano vizio e ama disquisirne con Verge che, alla stregua di una coscienza umana, cerca di riportarlo sulla retta via, posto che ci sia mai stata, dato che nel suo narrare Jack sottolinea che la sua insana passione per l’omicidio era già viva in lui da bambino, (e noi lo vediamo in azione nella scena, a mia avviso, più disturbante del film in cui amputa le zampe di una piccola anatra che poi getta in acqua). Il film poggia tutto sulle spalle di un  Matt Dillon in stato di grazia. Dillon è un attore non sempre apprezzato dalla critica e qui probabilmente è nel suo ruolo migliore (tra l’altro è anche uno dei pochi che ha avuto il coraggio di dire subito si a Von Trier). La casa di Jack non è un film adatto a tutti i palati. Di certo non a chi ama gli happy end e i buoni sentimenti a tutti i costi. Con questo film il  regista danese è più nichilista che mai, non c’è redenzione per il suo protagonista (che però, alla fine, va incontro a un inevitabile fallimento) e mai pentimento nelle scelte che compie, mette a nudo la sua anima nera e lo pone su un piedistallo come un artista orgoglioso di se e della sua arte. Il regista danese riesce così nell’intento di calamitare l’attenzione dello spettatore per oltre due ore attraverso una messa in scena che, come ho sottolineato, miscela sapientemente cultura, psicoanalisi, elegante retorica e orrore. Capolavoro.

©Sergio Di Girolamo