Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave: Recensione

 Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave: Recensione

Nazione
Italia

Anno
1972

Regia
Sergio Martino

Sceneggiatura
Ernesto Gastaldi, Adriano Bolzoni, Sauro Scavolini

Produzione
Luciano Martino

Cast
Edwige Fenech, Anita Strindberg, Luigi Pistilli, Ivan Rassimov

GIUDIZIO
3/5

Oliviero Rouvigny è uno scrittore fallito che vive in un vecchio casale nella campagna veneta con la moglie Irene. Il rapporto tra i due è burrascoso, è soprattutto l’uomo a non sopportare la moglie che viene ripetutamente derisa e maltrattata. L’unico essere vivente che sta a cuore di Oliviero è un gatto nero dal suggestivo nome di Satana, appartenuto alla madre, morta assassinata. La malsana routine coniugale si complica ulteriormente quando viene commesso un omicidio, quello della giovane amante di Oliviero, e lo scrittore è il primo sospettato, mentre arriva in paese l’affascinante ma ambigua nipote dello scrittore che si stabilisce con loro nel casale.

Ancora una volta Sergio Martino ci delizia con un thriller erotico ben fatto. In questo caso il regista romano decide di farsi ispirare dalla grande letteratura del brivido, riadattando il racconto “Il gatto nero” di Edgar Alla Poe. Partendo da un impostazione tipica del giallo thriller all’italiana, con tanto di killer vestito di nero e armato qui con un fatale falcetto, ben presto il nostro insinua nella storia anche delle spruzzatine di esoterico. Satana, infatti, si aggira continuamente nella villa e compare spesso nei luoghi dei delitti, facendoci sospettare, a un certo punto, che l’animale c’entri qualcosa e non sia altro che la reincarnazione di Ester, nobildonna e madre di Oliviero, alla quale era legato da un morboso rapporto incestuoso. Egli è infatti geloso della figura della donna, lo evinciamo quando parla di lei utilizzando toni sostenuti, tra l’ansia e il desiderio, infatuato com’è dell’immagine che campeggia nel vecchio dipinto appeso in salone. E’ un’opera d’altri tempi in cui la donna è raffigurata con indosso un vestito dal taglio ottocentesco, lo stesso che l’uomo tiene gelosamente in camera sua, come una sorta di oggetto fetish, e che nessuno può osare toccare pena la morte (come accade alla domestica di colore). Come in tutte le pellicole di Martino, l’aspetto violento e gore degli omicidi viene bilanciato da una buona dose di erotismo. Nel film i nudi femminili abbondano, tra rapporti etero e saffici, grazie alla generosità delle attrici: in primis la fatale Edwige Fenech, attrice feticcio del regista, che anche in questo caso non lascia nulla alla nostra immaginazione. Del resto il ruolo della nipotina Floriana è centrale nella vicenda e serve a scatenare la rabbia repressa di Irene che, guidata dal piano diabolico della ragazza, decide di affrontare a viso aperto il violento marito fino alle tragiche conseguenza. Nel frattempo gli omicidi aumentano e i sospetti ricadono sempre più su Oliìviero, anche se ciò che appare non è  in fondo quello che sembra. Di più non posso dire per non rivelare troppo e spoilerare. Di certo si può dire che il film ha una buonissima sceneggiatura con un finale a sorpresa che, come detto, si serve anche del racconto di Poe con le dovute differenze. Un plauso particolare lo farei agli attori, veramente bravissimi, in particolare alla protagonista Anita Strindberg, regina dei film di genere thriller e al veterano Luigi Pistilli.  Bella l’ambientazione rurale nelle campagne veneti (che ricorda un pò le pellicole di Pupi Avati) con tanto di personaggi folkloristici come la vecchietta in triciclo, e buone anche le musiche. La regia di Martino è efficace e il film non stanca, anzi ci stuzzica a trovare la chiave che risolva l’enigma dietro ai fatti di sangue che accadono a getto continuo.  

© Sergio Di Girolamo

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