True Detective – Stagione 1: recensione

 True Detective – Stagione 1: recensione

Quante volte riferendoci alla qualità di una serie tv abbiamo pensato  quanto fosse vicina a quella di un film? Si, perché di prodotti ben fatti,  destinati alle piattaforme di streaming quali Netflix Prime (solo per citare le più famose), ce ne sono tantissimi, capaci di raggiungere altissimi livelli qualitativi. Il proliferare di serie così ben fatte, allontana purtroppo gli spettatori dalle sale cinematografiche preferendo il divano di casa propria alla pur sempre comoda poltroncina ribaltabile. Fatta questa premessa True Detective stagione 1  ha indubbiamente una qualità così alta  e un taglio così cinematografico da poter essere considerato un film lungo 5 ore. Nic Pizzolatto, ideatore e sceneggiatore, e Cary Joji Fukunaga, alla regia, non hanno sbagliato praticamente nulla! Il piatto è ancora più succulento se pensiamo che Pizzolatto è riuscito a condire quello che, essenzialmente, è un  buddy movie con una commistione di generi  in modo intelligente, così da accontentare più palati: da chi è fan del poliziesco, chi del thriller, spingendosi fino all’horror. Non è semplice dire qual è la componente più forte della serie, tutto è veramente a livelli altissimi: dall’ambientazione azzeccatissima, in quel profondo sud degli Stati Uniti, tra Texas e Lousiana, in cui tutto può accadere, alla storia, strutturata per bene attraverso diversi salti temporali, a una regia e dei movimenti di camera superbi, fino a un  montaggio fantastico che trova il punto di massima nel quarto episodio Who Goes There? nel quale assistiamo a un magistrale piano sequenza di sei minuti  in una delle scene più adrenaliniche della serie. Eppure qualcosa che si eleva su tutto  c’è, ed è  la superba interpretazione dei due protagonisti, Matthew McConaughey e Woody Harrelson che vestono i panni rispettivamente degli agenti Rusty Chole e Marty Hart. In particolare McConaughey dà vita a un personaggio che non dimenticheremo facilmente. Una sorta di sbirro filosofo che sciorina a getto continuo perle di esistenzialismo malato e ultra pessimista. Rusty non crede in nulla a parte il male che circola nel mondo e che continuerà a farlo nonostante gli uomini si affannino per cercare di fermarlo, come fanno i poliziotti, ma per lui rappresenta solo un lavoro. Rusty è un uomo dalla personalità complessa, anche a causa  di un passato tragico (perde una figlia, vittima di un incidente stradale e poco dopo divorzia dalla moglie) ma ha il pregio di possedere un’infallibile fiuto per risolvere i casi più complicati. Nella serie lo vediamo via via cambiare (ma sarebbe giusto dire decadere) fisicamente e mentalmente, ossessionato dal caso a cui lavora con Marty. Un uomo a un passo dal baratro, a cui non importa più nulla della vita, almeno  fino a una grandiosa e direi poetica svolta finale. Certamente  se True Detective fosse stato un film, l’attore americano avrebbe meritato di certo l’oscar. Non è da meno  Woody Harrelson, il cui personaggio, Marty, è anch’esso caratterizzato benissimo. Egli è più pragmatico e solare del collega, ma pieno di complessi di colpa a causa di irrefrenabili impulsi di natura sessuale che lo portano a tradire sistematicamente la moglie. Marty cerca di sopravvivere al duro lavoro di poliziotto, cercando di mantenere il piede in due staffe: da un lato una famiglia, una moglie e due figlie a cui vuol bene e dall’altro l’amante, una giovane ragazza di nome Lisa, interpretata dalla conturbante Alexandra Daddario (occhio alla sequenza ultra hot nella seconda puntata). Questo equilibrio precario presto salterà, trascinando Marty verso un baratro personale al quale reagisce lasciandosi andare completamente ai suoi vizi. True Detective quindi non nasce solo con l’obiettivo di raccontare una storia incentrata su omicidi, indagini e sparatorie, la serie ideata da Pizzolatto punta soprattutto su un’indagine interiore dei personaggi, sul rapporto tra questi “Detective Veri” che qui è costituito da contrasti marcati (più volte Rusty e Marty finiscono per punzecchiarsi fino a darsele di santa ragione) ma in fondo  caratterizzato da una vera amicizia.  Dicevo della componente horror. Eh si, perché True Detective affonda le radici in una storia malsana, che inizialmente sembra aggirarsi nei territori del thriller alla Seven ma che poi mette sul piatto molte altre cose, a partire da connessioni con sette religiose, adoratori del male e della violenza più efferata (si parla di misoginia e pedofilia) fino a citare Il Re in Giallo, raccolta di racconti gotici dello scrittore statunitense Robert William Chambers, apprezzato da H.P. Lovecraft, che a sua volta viene chiamato in causa diverse volte (soprattutto nello sconvolgente finale). La prima stagione di True Detective è ormai storia della serialità televisiva, un prodotto di fronte al quale tutte le serie di qualità devono confrontarsi,  così ben fatta che le altre stagioni (compresa la quarta, attualmente in programmazione) non hanno minimamente sfiorato la sua grandezza.  

© Sergio Di Girolamo

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